In occasione del decennale della morte del Pirata abbiamo fatto due chiacchiere con la voce tecnica del ciclismo di Eurosport. “Sono già passati 10 anni – ci racconta Magrini – ma il ricordo di Marco è sempre vivo. Aveva una teatralità fuori dal comune: ed è per questo, forse, che è stato così tanto amato dalla gente”
Per convincerlo ci abbiamo messo un po’. Riccardo Magrini ha accettato di fare questa chiacchierata solo perché siamo amici, amici veri. Il Magro, voce storica del ciclismo di Eurosport, ha conosciuto Marco Pantani fin dall’inizio della sua carriera, e del Pirata è stato per un breve periodo anche direttore sportivo. Nonostante preferisse tenere per sé il ricordo per il dolore che quel maledetto 14 febbraio gli provoca, Riccardo ci ha comunque aperto il suo album della memoria, con un’intervista che abbiamo appositamente pensato per rendere onore al Pirata, uno dei più forti corridori italiani di tutta la storia del ciclismo italiano.
Non ti chiedo quanto manca, perché la risposta sarebbe scontata, ‘tantissimo’. Ti chiedo allora come mai – secondo te – Marco Pantani ci manca ancora così tanto, a dieci anni dalla sua morte…
Perché era forte, fortissimo. E poi sapeva trascinare la gente. Da lui ti aspettavi sempre qualcosa, ed era per questo – fondamentalmente – che le persone lo amavano e lo andavano a vedere sulla strada. Dalla massaia all’imprenditore, dal bambino all’universitario: quando c’era Pantani, c’era Pantani. Tutti fermi a guardarlo. Un po’ come quando gioca l’Italia ai Mondiali di calcio. Sono passati 10 anni, ma il ricordo di Marco è sempre vivo.
In cosa era un fenomeno? In cosa era unico? Di corridori italiani che vincono ce ne sono stati tanti, ora da ultimo Nibali, ma tutti si ricordano di Marco…
Nell’andare in bicicletta era unico, in salita soprattutto. Aveva una creatività particolare, non studiata e costruita, ma assolutamente naturale. Agiva d’istinto, e lo faceva anche per il pubblico. Era teatrale come pochi altri hanno saputo essere nella storia del ciclismo. Appena la strada cominciava a salire, i suoi tifosi si aspettavano lo scatto, e lui – se stava appena appena un po’ bene – si tirava via gli occhiali, la bandana… Poi partiva e staccava tutti. Ha fatto crescere il senso dell’attesa per una sua azione: un qualcosa che capita solo ai grandi. Era un corridore dal sapore antico: andava a sensazioni, non amava le metodologie troppo rigide in allenamento. Aveva le sue solite salite lungo le quali testarsi: a lui bastava questo per essere fuoriclasse assoluto.
Che tipo di leader era, Marco? Com’era il suo rapporto con i compagni di squadra?
Non diceva tante cose, si guadagnava il rispetto dei colleghi sulla strada, con la sua straordinaria capacità di andare in bicicletta, di sentire le gare. Correva in fondo al gruppo, poi – tutto d’un tratto – lo ritrovavi davanti a scattare. Era un leader carismatico, capace di mettere a proprio agio tutti i suoi compagni di squadra con cui riusciva a instaurare un rapporto profondissimo. Faceva gruppo, nonostante quel carattere un po’ schivo. Era sempre il primo ad arrivare a fare colazione: non era un chiacchierone, ma sapeva comunicare anche con lo sguardo, tanto tagliente da apparire quasi loquace. Sì, con un’occhiata era in grado di trasmetterti i suoi pensieri: sapevi subito se era in buonaoppure no. Una cosa è certa: era ambizioso, sapeva che prima o poi sarebbe arrivato…
Da cosa lo si capiva?
Dai piccoli gesti, dalla sua maniacalità nel lavoro e persino nelle frasi che diceva. Quando correva inCarrera, Chiappucci – che dormiva in stanza con lui – era il capitano della squadra. Logico che intervistassero quasi sempre lui. Ma a Marco questo non andava giù: era ambizioso e aveva il carattere del fuoriclasse. ‘Dopo fate qualche domanda anche a me?’, diceva ai giornalisti che andavano a sentire Claudio. ‘Vedrete che prima o poi farete la fila per intervistarmi’. Aveva ragione…
Marco non aveva molto del romagnolo, era poco guascone e amava ben poco stare al centro dell’attenzione: eppure era esaltato da tutti come una star. Come mai secondo te?
Personaggi come lui ce ne sono stati pochi: la sua è stata una storia controversa, difficile, in alcune circostanze sfortunata. E’ anche per questo forse che è stato così tanto amato dalla gente. Aveva il carattere del fuoriclasse. Ed è stato così fin da ragazzino. Quello che piaceva di lui era la sua umiltà: era molto profondo, spesso timido, ma aveva un carisma eccezionale. Quando arriva lui si creava un alone di grande rispetto. Lui sapeva tutto di tutto. Di ciclismo, soprattutto, ma anche a livello generale. Voleva mettere bocca su ogni tema affrontato, e aveva l’intelligenza per capire quando stare in silenzio perché non propriamente padrone dell’argomento che si stava trattando. Non parlava mai a sproposito. Era molto serio, ma la serate con lui erano molto divertenti…
Raccontaci qualcosa…
Si cantava. Un cavallo di battaglia a testa, lui aveva Gente di mare e io Una carezza in un pugno. Ci si sfidava al piano bar: noi voce, gli altri al piano. In mezzo alla gente Marco mostrava una faccia, con gli amici ne aveva un’altra. Era molto più tranquillo, si lasciava andare. E cantava bene.
I genitori combattono ancora per fare chiarezza sulla sua morte. Tu cosa ne pensi?
Qualcosa di contorto forse c’è. Con Tonina ho un buon rapporto e ne abbiamo parlato spesso. Secondo lei c’è qualcosa di strano. Io, per quello che può valere, credo che non sia stato il ciclismo a ucciderlo. Ma questo non è il momento di affrontare un discorso di questo tipo. Ora è il momento del silenzio, del ricordo, dell’omaggio al campione che è stato e dell’uomo che ha saputo dimostrare di essere. Mi piace ricordarlo allegro, che alza le braccia al cielo per le sue grandi imprese.
Qual è l’impresa che ti resta più in mente? La tappa che hai nel cuore…
Sicuramente quella del Galiber, al Tour del 1998. Pioveva e faceva un freddo incredibile: partì a 4 km dalla vetta e staccò tutti, arrivando poi al traguardo di Les Deux Alpes con 8’57’’ di vantaggio sulla maglia gialla Ullrich. Quell’impresa resterà per sempre nella storia del ciclismo. In quel Tour Pantani realizzò un qualcosa di straordinario, soprattutto se consideriamo il fatto che dopo il prologo di Dublino era praticamente ultimo… Dopo il trionfo era al settimo cielo. Mi diceva: “Magro, non puoi capire… Ti rendi conto di cosa ho fatto?!”
Che rapporto avevate? Quando lo hai incontrato per la prima volta?
Essere stato corridore mi ha permesso di entrare da subito in sintonia con lui. Io lo seguivo già quando era dilettante, in ‘gruppo’ si parlava di questo ragazzino dal potenziale infinito… Nonostante gli anni di differenza c’era grande rispetto tra di noi. La prima volta che l’ho incontrato è stato nel 1993, in occasione del suo primo Giro d’Italia tra i professionisti. Ci scambiammo uno sguardo e l’intesa fu immediata. Con il passare degli anni ci siamo sempre rivisti, una delle ultime volte a inizio 2003, durante la Coppi e Bartali. Mi vide e venne incontro: mi abbracciò forte e mi toccò il petto con la mano. Come stai?, mi chiese. Sapeva che avevo avuto un infarto a fine 2002. Marco era davvero una persona buona.
Guardando quello che è successo dopo (l’imbroglio di Armstrong e le tante positività emerse nel corso degli anni), come giudichi il fine-carriera di Pantani?
Aumentano i rimpianti per quello che sarebbe potuto essere e che invece non è stato.
E’ difficile fare classifiche tra i corridori di epoche diverse, ma dove posizioneresti Pantani in una ipotetica classifica comprendente tutti gli atleti di casa nostra?
Ogni epoca ha avuto i suoi campioni, ma Marco è sicuramente da inserire tra i più forti corridori italiani di sempre, al pari di mostri sacri come Bartali, Coppi, Magni, Gimondi, Adorni, Moser e Saronni. La sua incredibile capacità di fare la differenza in salita lo ha però reso unico nel suo genere: e non solo per l’impatto che ha avuto sulla gente. In bici era spettacolo puro.
Continue readingVa a Oscar Gatto la Catena Incatricchiata 2015, premio goliardico banditoda Riccardo Magrini, ex direttore sportivo e ora noto commentatore tecnico di Eurosport. La premiazione è avvenuta presso l’Hotel Regina di Alassio in occasione dell’annuale cena organizzata dal Circolo Sportivo Ortisero.
Il riconoscimento è nato nel 2010 da un’idea di Massimo Botti e lo stesso Riccardo Magrini, in seguito all’espressione pronunciata da quest’ultimo in occasione dell’ormai celebre salto di catena di Andy Schleck sul Port de Bales al Tour de France, proprio nel momento in cui Alberto Contador decise di partire.
Un episodio a dir poco sfortunato – sebbene il lussemburghese vinse a tavolino quella Grande Boucle – che diede l’idea ai due stimati esperti italiani di istituire un premio per chi si rendesse suo malgrado protagonista di una circostanza altrettanto sfortunata.
E così, dopo Alessandro Petacchi, impostosi nel 2014, quest’anno è toccato ad Oscar Gatto, fresco di passaggio alla Tinkoff-Saxo. Motivazione del premio: “camera d’aria incatricchiata“, come recita il comunicato stampa.
Durante la 10^ tappa del Giro d’Italia 2015, la Civitanova Marche – Forlì – in fuga con altri quattro corridori e sicuramente il più veloce del drappello, il trentenne di Montebelluna vide sfumare ogni possibilità di successo a dodici chilometri dal traguardo a causa di una foratura. La frazione andò poi a Nicola Boem.
Al secondo posto, secondo i voti della giuria, l’argentino Eduardo Sepulveda, in forza alla Bretagne-Seché, protagonista di un episodio analogo nel corso del Tour de France.
Come ci tengono a precisare gli istitutori del premio, esso mira ad essere un riconoscimento moralea chi abbia subito tanta sfortuna in circostanze importanti e vuole essere di buon auspicio per il futuro perché, come scrisse lo scrittore scapigliato Carlo Dossi, “L’ultimo gradino della cattiva fortuna è il primo alla buona” (Note azzurre, 1870).
È ciò che auguriamo al corridore quest’anno in forza all’Androni-Sidermec: nel 2016 correrà al fianco del campione del mondo Peter Sagan, per il quale sarà costretto a lavorare, ma auspichiamo possa farsi trovare pronto quando avrà la possibilità di giocarsi le sue chances.
Riccardo Magrini, originario di Montecatini Terme ed ex ciclista e dirigente sportivo, ora commentatore televisivo italiano. Professionista dal 1977 al 1986, atleta estroso e discontinuo, nelle sue dieci stagioni da professionista (con quattro edizioni del Giro d’Italia concluse), non sempre ha saputo disciplinarsi a dovere. Non gli sono mancate le vittorie e nel 1983 ha messo a segno un’accoppiata importante vincendo una tappa al Giro e una al Tour, quando era dal 1979 che un italiano non vinceva una tappa del tour francese. Una carriera quindi lunga e apprezzabile anche se in molti, sbagliando, lo ricordano soprattutto per il suo carattere estroverso e le sue barzellette. A fine 1986 cessò la carriera come ciclista e passò a ruoli direttivi in ammiraglia e negli anni successivi fu direttore sportivo, prima di squadre dilettantistiche, poi, nel 2002, alla Mercatone Uno di Marco Pantani e nel 2004 della Domina Vacanze di Mario Cipollini. Dal 2005 è commentatore televisivo e opinionista per Eurosport.
In occasione di una cena alla palestra Ego a Sant’Alessio, l’ex ciclista ha ripercorso con la Gazzetta di Lucca, qualche aneddoto passato.
Dopo tutti questi anni, cosa le manca del ciclismo?
Direi niente. Ho fatto tutto quello che dovevo fare e con il tempo non mi sono mai estraniato da questo sport, anzi, sono sempre rimasto nell’ambiente. Prima come direttore sportivo e ora come commentatore, ma non ho mai lasciato veramente il ciclismo. Sono già dieci anni che lavoro per Eurosport e faccio il commentatore e questo mi da modo di poter rimanere a stretto contatto con questo bellissimo sport.
La vittoria al Tour de France nel 1983, dopo quattro anni di assenteismo italiano, che ricordi le lascia?
Sicuramente la mia vittoria più bella, perché questa è la competizione più importante di tutte. Siamo partiti per il tour con buone aspettative ma non avrei mai pensato di salire sul podio io in prima persona. Forse è stata anche un po’ di fortuna…
Mi scusi ma a quei livelli la fortuna c’entra poco o nulla…
Effettivamente quella vittoria la cercai. Il tracciato era congeniale alle mie caratteristiche e decisi di provarci. Smisi di fare il mio solito compito di gregariato e mi staccai dalla squadra. Salire sul podio con corridori che avevano vestito la maglia gialla è stato bellissimo.
Come lo vede il ciclismo oggi?
Ci sono questi due corridori, Fabio Aru e Vincenzo Nibali che stanno portando entusiasmo e avvicinano molte persone a questo sport. L’unica pecca è che corrono nella stessa squadra e questo penalizza un po’ sia loro che lo spettacolo. Se corressero in due scuderie diverse, sicuramente il confronto sarebbe bellissimo, perché sono due grandi campioni che stanno gareggiando all’apice della loro forma fisica.
Quando era corridore, molti la descrivevano come un ciclista dal carattere estroverso e famoso per le sue imitazioni e barzellette. E’ vero?
Si, diciamo che io ero un personaggio un po’ sopra le righe e in un mondo del ciclismo che, all’ora, era molto rigido, diciamo che spiccavo in particolar modo. Io strimpellavo qualcosa con la chitarra, ho sempre voluto imparare a suonarla ma non ci sono mai riuscito del tutto. Però quando andavamo in ritiro con la squadra ero solito cantare qualcosa o improvvisare qualche gag per fare due risate.
Quali gag era solito interpretare?
Raccontavo barzellette, cosa che ora ho smesso di fare, ma anche imitazioni di Jerry Lewis e altre. Mi ricordo che per un periodo, il grande comico Gianfranco D’Angelo, grande comico di Drive In, che nel 78’ e nel 79’ faceva anche il commentatore televisivo nel dopo tappa. Non mi ricordo il perché e in quale circostanza ma ci trovammo ad improvvisare delle gag e da qui mi è rimasto questo appellativo. Il grande commentatore Adriano De Zan, ricordava spesso al pubblico questa mia propensione per il comico.
Secondo lei la fama di, diciamo così, ciclista-cabarettista, con un caratterino sopra le righe, le è servito per la sua carriera?
Come ho detto prima, il mondo del ciclismo prima era molto rigido, adesso pagherebbero per avere personaggi così, che diano una scossa e facciano parlare. Diciamo che durante la carriera da corridore questo non mi ha intralciato più di tanto, mentre quando ho dovuto rivestire i panni di direttore sportivo, mi ha molto penalizzato.
Ha faticato a scrollarsi di dosso questa etichetta?
Purtroppo si. In un ambiente come questo non stanno a vedere molto cosa hai fatto e da dove vieni, conta molto l’immagine e la fama che hai. Una figura professionale come quella del direttore sportivo deve essere seria, mentre io non ci vedevo nulla di male a portare la chitarra ai ritiri e suonare qualcosa con i miei ragazzi. Con il lavoro duro alla fine sono stato apprezzato per il mio impegno e questa etichetta ormai me la sono tolta.
Quindi ha smesso di fare imitazioni?
Assolutamente no, con gli amici mi diverto sempre molto e ora sono un commentatore sportivo da ormai dieci anni.
LUCCA. Venerdi scorso al Centro Ego Wellness Resort è stato premiato Riccardo Magrini,attuale telecronista di Ciclismo di Eurosport e con un bel passato da professionista. Da corridore è stato un buon gregario, ma riuscì anche a vincere qualche corsa. Il suo anno migliore fu il 1983 quando si impose in una tappa al Giro d’Italia e in una al Tour de France (quella da Nantes a Ile d’Oléron), ma divenne popolare per le sue imitazioni ai personaggi ciclistici e per il suo carattere di animatore in corsa e fuori corsa. La sua premiazione da parte dei responsabili della Ego Manlio Galli e Luca Dini, che gli hanno consegnato una targa a ricordo della serata, è stata accolta con entusiasmo dai numerosi fans ed invitati fra i quali lo storico Ds Piero Pieroni, l’ex professionista Cesare Cipollini, per anni compagno di allenamento di Magrini, e di Pierluigi Poli, presidente del Pedale Lucchese. Invitato dai presenti, Magrini, per ricambiare il tanto affetto, ha simulato la telecronaca della tappa da lui vinta nel 1983 al Tour de France. Iniziò a fare il telecronista nel 2005 dopo aver smesso di fare l’allenatore alla Domina Vacanze.
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